Moltissimi conoscono l’espressione “E’ una tragedia greca”, ma pochi sanno quale valore la tragedia greca veramente ricoprisse. Di certo evoca drammi efferati, inenarrabili, tragedie che la mente fatica ad accettare, storie di uccisioni macabre e violente: una moglie che aspetta dieci anni il rientro del marito partito per la guerra, covando una vendetta che mette in atto non appena rientra in patria (Agamennone di Eschilo); un figlio che per vendicare il padre uccide senza pietà la madre, incitato dalla sorella (Elettradi Sofocle; Oreste e Elettra di Euripide); una giovane donna che, per vendetta nei confronti del proprio compagno fedifrago, uccide i figli avuti dalla loro relazione (Medea di Euripide); la lotta senza pietà di due fratelli che trascinano nell’odio un’intera città e finiscono per uccidersi vicendevolmente (Sette contro Tebe di Eschilo); l’incesto inconsapevole di un figlio con la propria madre e l’assassinio del padre (Edipo Re di Sofocle).
Si potrebbe pensare: barbarie relegabili ad un tempo passato! Ma così sfugge completamente l’essenza di quelle rappresentazioni: erano ritenute talmente importanti da spingere la Polis, la città, a riconoscere un contributo agli spettatori poveri che non partecipavano per non perdere una giornata di lavoro. La gente era pagata per andare a teatro! Possibile? Per vedere rappresentati quei drammi? E con quale scopo? La finalità la spiega chiaramente Aristotele nella Poetica: la tragedia greca aveva una funzione catartica, di purificazione dalle passioni attraverso un meccanismo complesso che proverò a semplificare. Lo spettatore, che assiste a teatro alle tragedie più inconfessabili, partecipa con sofferenza ai drammi rappresentatati, si immedesima nei ruoli (sumpatheia, letteralmente ‘soffro con’), e prova un dolore che è preannuncio della catarsi finale, cioè della liberazione, di una sorta di alleggerimento nel momento in cui realizza che i drammi sono sulla scena e non lo vedono coinvolto direttamente. La rappresentazione teatrale innesca un meccanismo che purifica dalle emozioni, le mette in moto, le fa scorrere con sofferenza dentro dinoi per poi sentirci più sollevati nel momento in cui si conclude questo processo. Ecco perché Aristotele riconosceva al teatro un valore altamente educativo (paideutico).
Al mondo d’oggi ogni delitto efferato crea – giustamente – ondate di indignazione, rabbia, consapevolezza, momenti di riflessione, ma questo effetto catartico si attiva solo a seguito di eventi reali, non finti, per poi scemare fino al tragico evento successivo. Manca un’educazione sentimentale perché si è scelto volutamente di mettere un tappo su tutto quello che smuove il lato emotivo. Non si può vivere in una società che mostra scarsa cura e interesse per le emozioni perché queste rappresentano la dimensione meno gestibile, più imprevedibile, e in parte violenta, dell’animo umano. Le emozioni vanno riconosciute, educate, tenute a bada, solleticate, rimosse, adattate ai contesti. Il mondo greco lo sapeva bene, ma oggi si preferisce ‘non turbare gli animi’: ai bambini e alle bambine non sono più raccontate le favole con le streghe, con l’orco cattivo, con il lupo, metafora del male; la favola di Barbablù di Charles Perraut (XVII sec) con il protagonista che uccide le sue donne non è più politically correct. Non per questo il male è scomparso, anzi: il male esiste ed è nel mondo, ad ogni angolo. La favola consente ai bambini di prenderne consapevolezza in modo meno diretto e più fantasioso.
Non c’erano solo le favole, c’erano pagine stupende della letteratura che insegnavano agli adolescenti a prendere dimestichezza con le emozioni; c’erano poesie d’amore vibranti ed accorate, storie di dolore e rinascita, azioni eroiche e miserevoli. Quando a 18 anni leggevamo i Dolori del
giovane Werther di Goethe o Le ultime lettere di Jacopo Ortis di Foscolo non lo leggevamo perché i docenti volevano istigarci al suicidio, ma lo leggevamo per capire anche la potenza distruttiva di certi sentimenti, il dramma che può annichilire e sconvolgere. Quando si leggevano i romanzi di D’Annunzio, si rifletteva sulla dimensione del superuomo, sulla sua volontà di potenza (anche distruttiva), sulla pazzia folle che spinge il protagonista del trionfo della morte a trascinare con sé nel baratro la donna amata, diventata la Nemica. E si potrebbe continuare all’infinito, parlando di arte, di filosofia, di musica, semplicemente di emozioni e di animo umano che, pur nel trascorrere dei secoli, rimane lo stesso.
Di qui, allora, l’importanza della conoscenza e dello studio dei classici, della lettura di poesie, delle tragedie, delle commedie, dei romanzi di amore, di storie di viaggi, di illusioni, di morte; l’importanza della musica (di cui ho già parlato), dell’arte, della filosofia. Si sta riducendo l’uomo ad un esperto tecnologico, ad un abile realizzatore ‘del fare’, ma ci si scorda che non è fatto solo di materia, ma anche – e soprattutto – di anima, di sogni, di emozioni quali sofferenze, gioie, dolori, rabbia, amore, vigliaccheria, solitudine, inettitudine. La cultura offre per ogni emozione i suoi modelli letterari, artistici, filosofici, musicali: se si vuole fare una reale educazione sentimentale è necessario ripartire da quelli, perché la rappresentazione della vita appartiene ai secoli di storia, non al presente.